Siamo arrivati alla fine del nostro viaggio.
Abbiamo, in ultimo, incontrato il personaggio principale del sonetto del
Santinelli, Argio.
Il nome di Argio ci fa, ora, porre un
problema.
Cosa vuole dire "Argimusco" o "Argimosco"?
All'inizio di quest'opera ci eravamo rimessi alla vulgata corrente negli studi
degli storici locali ovvero “Altopiano dalle ampie propaggini[1]”.
Ci spiaceva, dovere portare la nostra eresia
“anti-preistorica” alle estreme conseguenze. Gli amanti della tesi preistorica
ci sono simpatici.
Ora, però, lo diciamo: il toponimo non ha
quel significato, ma ben altro. E molto più coerente con i luoghi e le loro
caratteristiche tanto storiche quanto ambientali.
Chi è stato nel bosco di Malabotta ha
certamente notato la grande quantità di muschi[2]
attaccati a massi o a pluricentenari alberi di roverella. Chi è stato sul
pianoro di Argimusco non può non avere osservato la foresta di felci ivi
presente.
Muschio in latino si diceva “muscus”, in
catalano “musgo”. In greco “muschio” si diceva “Bryon”. La felce si diceva in
greco “pteris”.

Dunque, sia felce che muschio appartengono
alle piante Briotteridi[5].
Anche se volessimo non forzare troppo la mano abbandonando l'accostamento della
felce con il muschio, non potremmo non notare che il toponimo di Argimusco è
indicatore della presenza catalana sul sito e nei paraggi.
“Argimuscus”, dunque, sarebbe stato il nome
latino e “Argimusgo” avrebbe dovuto essere il toponimo in pronuncia Catalana.
Nel 1282 ricordiamo che Pietro III d'Aragona
passò dai luoghi chiamando il sito “Argimustus” (il Re e il suo seguito non
notarono, singolarmente, alcuna struttura megalitica o di statue...)[6].
Argimustus, dunque, fu poi mutato nel giro di
pochi anni in “Argimuscus” già nella sopraccitata lettera di Federico III a
Giacomo II del 16 luglio 1308.
Il termine Argimustus (con la t), dunque,
potrebbe essere stato o un errore di Bartolomeo di Neocastro o un errore di
qualche successivo scrivano che non avrebbe saputo copiare bene il termine
latino Argimuscus.
Tanto precisato, cosa vorrebbe dire il
termine “Argi”?
Abbiamo visto che il termine richiama il
personaggio principale, Argio, del sonetto Carlo V del Santinelli che, guarda
caso, presenta Arnau de Vilanova, in un ambiente molto simile all'Argimusco e
alla vicina Montalbano.
Argio ci può aiutare? Vediamo.
La figura di Argio, come si è detto, nasconde il Santinelli. Egli compare fin dall'inizio del poema nella sua
carica di “cameriere segreto” e nella sua qualità di “filosofo ermetico”:
“Frettoloso comparve il saggio Argio che
l'uscio Imperial chiude ….”. Il nome Argio è un chiaro riferimento al periplo degli Argonauti
che vela il suo periplo alchemico[7].
Argi - Deriva dal greco antico άργος (argos), che significa sia
"splendente", che "luccicante". Il termine è etimologicamente
correlato al nome Argia (Argio)[8].
Cerchiamo ora di capire. Il termine
“splendente”, “luccicante” ha nulla a che fare con l'Argimusco o con le, da noi
supposte, pratiche alchemiche?
Per capirlo, torniamo al tema dei metalli. Per fare questo ci riferiamo brevemente a testi di due autori, Evola e Kircher, che ci hanno spiegato il vero senso dell'Oro alchemico.
“La produzione dell'oro metallico, non era né
un fenomeno sensazionale né un'acquisizione scientifica. Si trattava invece
della produzione di un “segno”. E' ciò che il cattolicesimo chiamerebbe
propriamente un miracolo, in opposto al fenomeno; ancor meglio ciò che il
buddismo chiama “miracolo nobile” in opposto a quelli volgari, i quali perfino quando
sono fenomeni estranormali, non incorporano alcun significato superiore. La
produzione dell'oro metallico era cioè una testimonianza trasfigurante data da
un potere: testimonianza dell'aver realizzato in sé, l'Oro. Senonchè con il diffondersi dell'alchimia
in Occidente queste conoscenze subordinate si separarono dal resto e si
disanimarono. E il desiderio e la cupidità per l'oro puro e semplice, per l'oro
spendibile, fecero il resto. E così che nacque quell'alchimia che può essere
considerata come lo stadio infantile della chimica scientifica. (…)”[9].
E ancora: "Dice il volgo nella Turba[10]:”il nostro Oro è
il Sole, il Sole luminoso, che riscalda, altera, corrompe, putrefa, digerisce,
genera, rarefa, scioglie, illumina le altre stelle”, e ancora: (…) La Turba proclama: “il nostro Oro
può essere moltiplicato all'infinito”[11]
“Le corrispondenze simboliche: Anima=Solfo (o
Fuoco, o Sole, o Oro); Spirito=Mercurio (o Acqua o Luna o Argento); Corpo=Terra
(o Sale) sono esplicite e uniformi nei testi ermetici[12] e non si comprende
proprio il nessun conto che di esse ha tenuto la critica moderna”[13].
Abbiamo sentito cosa volesse dire il termine Oro/Sole per gli alchimisti. Per quale motivo, dunque, la felce o il muschio
sarebbero stati, dunque, luccicanti?

Per rispondere citiamo, ancora una volta, tra i numerosissimi (e complicatissimi testi alchemici) il Mutus Liber. In esso viene descritto il Magnum Opus. Il primo livello del processo alchemico, qui riportato in una delle tavole del Liber, prevede la raccolta della rugiada ove le cinque lenzuola stese, si impregnano del pregiato liquido, e l'uomo e la donna provvedono a strizzarlo in una bacinella. Il potente influsso cosmico di cui la rugiada è latrice è simboleggiato dal fascio di lame di luce che proviene da un punto centrale nel cielo, a metà via tra le due polarità, il Sole e la Luna.
La rugiada era, dunque, latrice di un
influsso cosmico rappresentato con raggi di luce. La rugiada, posata sulle felci
e sul muschio, rendeva, dunque, luminose le felci o i muschi irrorati, al
mattino.
La luccicante rugiada, colta con le lenzuola
al mattino nel Mutus Liber, era, dunque, la stessa che oggi ci
appare all'esame logico e semantico del significato del toponimo connessa con la presenza culturale alchemica ipotizzata sul sito di Argimusco?
E' molto probabile. Tale asserzione viene
suffragata tanto dalla contestuale presenza di indiscutibili simboli alchemici
quali il salnitro, la civetta, l'alambicco e il pellicano, quanto dal fatto che
nella cultura dell'epoca “l'alchimia era l'astrologia del sottoterra”: e
l'Argimusco era innanzitutto, e rimane, se non il più importante, uno tra i più
grandi siti astronomico-astrologici al mondo.
Dunque, Argimusco letteralmente significherebbe: “muschio
(o felce) luccicante”.
Se ora rimettiamo insieme tutte la massa di scoperte
documentali e storiografiche sulle tecniche medico- astrologiche e alchemiche
illustrate in questo testo, la spiegazione da noi data al toponimo prende una
sua lucida e inoppugnabile coerenza.

Vogliateci perdonare. Questo lungo e
estenuante viaggio ci ha condotto, infine, alla stessa voce, al verbum di
partenza, da cui siamo partiti, Argi-Musco.
Nomina sunt consequentia rerum. Amen.
PAUL DEVINS & ALESSANDRO MUSCO
….E IL TOPONIMO “MALABOTTA”?
Il sito di Argimusco era all'epoca parte del demanio reale?
Un documento, dotato di epistola di ratifica
da parte di Papa Innocenzo III del 17 giugno 1211, attesta che “Montalbano
con tutti casali e tenimenti suoi”, per disposizione di Federico II di Svevia, era entrato a far
parte del “dodario” (la dote) della moglie Costanza d’Aragona e, come tale, apparteneva
al demanio regio, sotto il controlIo diretto della corona[14]. Certamente
faceva, dunque, parte del demanio regio di Montalbano anche il bosco di Malabotta, riserva di caccia, e la importante
strada che ivi vi passava.
Abbiamo notizie di un passaggio di là da
parte del Re aragonese Pietro III[15].
Suo figlio Federico III ivi vi trascorreva l'estate: da
lì, ricordiamo, nel mese di luglio 1308 Federico aveva mandato un importante
documento diplomatico a suo fratello Giacomo II.
Il re Federico III, dunque, possedeva qualche
fortilizio, ove risiedeva, nei dintorni dell'Argimusco. Riteniamo che, con ogni
probabilità, si trattasse del Castellaccio, oggi ridotto a rovina, ed
individuato da Ferdinando Maurici. Il Castellaccio si trovava in effetti lungo la
strada che conduceva da Montalbano, via Argimusco, a Santa Domenica Vittoria e poi a Randazzo, sede di altro palazzo reale e da cui iniziava l'antica strada romana
per Palermo. Dal Castellaccio il Re si muoveva per andare nel bosco di Malabotta ove andava a caccia[16],
per come dice la tradizione locale[17].
Non dimentichiamo che, come ulteriore riparo dalle intemperie, il Re poteva
disporre anche della torre fondaco medievale sita proprio dirimpetto
all’Argimusco. Lo stesso termine catalano da cui deriva il toponimo Malabotta, secondo noi, indicava il clima
spesso ventoso e non sempre clemente dei luoghi.
“Malabotta”, secondo noi, è un nome derivante
dal catalano Bot, uno dei Comuni della Comarca (contea) della “Terra Alta”
nella provincia di Taragona in Catalogna. Il nome ricorda l’altezza del sito
grazie all’appartenenza alla Terra Alta catalana, mentre l’aggettivo stava ad indicare
la temperatura spesso poco mite dei luoghi, che d’altronde indusse i Catalani
ad abbandonare il fortilizio del Castellaccio ivi sito. Tutt’oggi il sito è
spazzato da venti impetuosi, con temperature invernali spesso decisamente
continentali.
Come ogni re medievale anche Federico adorava
la caccia. Dal suo predecessore Federico II di Svevia[18] cui
deliberatamente, peraltro, si richiamava, e non solo per il suo acceso
ghibellinismo[19],
assunse il numero III nel titolo reale, ovvero di terzo del Regno di Sicilia
dopo lo svevo[20].
Tale nome e il numerale che doveva essere II (in quanto secondo Federico a regnare in Sicilia), è noto, ha causato in non piccola parte la sua sfortuna storica
poiché ha sempre determinato la confusione del re aragonese con il più famoso Federico II di Svevia, anche nello stesso
paese di Montalbano. Bene, proprio Federico II di Svevia era molto conosciuto
per l’arte di cacciare con il falcone.
Dunque, il bosco di Malabotta al cui interno si trova l’Argimusco
è, secondo noi, un ulteriore prova della demanialità del sito dell’Argimustus,
in quanto era riserva di caccia reale per la caccia con falcone. Per questo fu
rinominato, in parole catalane, per come oggi ancora suona.
PAUL DEVINS & ALESSANDRO MUSCO
CONSIDERAZIONI FINALI
Dicevamo che il nostro viaggio è ora veramente giunto al termine.
Abbiamo scoperto il senso e la funzione medico-alchemica dell'Argimusco, attivata per il tramite di un vero e proprio "Specchio delle costellazioni sulla terra", per "come in cielo così in terra". Costellazioni riprodotte secondo il canone arabo medievale, per come documentato nei nostri studi.
Abbiamo spiegato il senso dei megaliti/statue dell'ingresso, non stereotipi sessuali ma simboli tipici dell'ambiente alchemico cristiano medievale.
Abbiamo ancora rivelato con quali tecniche di diagnosi e di terapia medica, basate sull'osservazione della luna e delle stelle, l'ideatore utilizzava il sito tramite alcune tacche incise sui megaliti, il sestante arabo di pietra, la vasca per le sanguisughe e, abbiamo detto, a mezzo della sfera di Pitagora e dell'astrolabio.
Abbiamo detto del simbolo templare presente sul sito di Argimusco come di due chiese a Montalbano di chiara impronta architettonica romanico-catalana, con ogni probabilità dedicate ai Beghini. Quel progettista simpatizzava, così come per i templari anche per quei Beghini da lui fatti accogliere alla corte aragonese di Montalbano.
Abbiamo trattato della passione per le stelle presente nella corona di Aragona e della passione alchemica e stellare della grande e coraggiosa Regina francescana Eleonora d'Angiò, rivelando come, con una tassa imposta sulla sua Camera Reginale siracusana, Ella segretamente finanziò la realizzazione dello "Specchio delle stelle". Quella stessa Regina che, ritiratasi a vivere in provincia di Catania, viene ancora ricordata nei luoghi come "Stella Aragona", a causa della sua passione per le stelle.
Abbiamo parlato dello straordinario mondo culturale dell'eccezionale personaggio storico che concepì e guidò il grandioso progetto dell'unico specchio delle stelle esistente al mondo: Arnaldo da Villanova. Egli scelse di vivere a Montalbano i suoi ultimi giorni di vita ove fino a poco tempo fa era ancora ricordato, oltre che per un iscrizione nella chiesetta di S.Caterina, nella tricora che ospitò la sua tomba circondata da affreschi con citazioni in arabo e in ebraico del Vangelo.
Oggi quelle iscrizioni e quegli affreschi sono pressochè distrutti causa l'incuria degli uomini (e non vogliamo parlare della malafede, quella stessa che ha fatto vandalicamente rimuovere i simboli ghibellini dal castello di uno dei più grandi Re ghibellini della storia).
Sul sito, chiamato ancora oggi Argimusco, sono state di recente impiantate orride pale eoliche al fine della devastazione del paesaggio (e guadagni di multinazionali dell'energia).
Eppure, quel sito già solo dal nome ("Argimusco", abbiamo rivelato, vuol dire "muschio/felce luminosa") dimostra una frequentazione, per come abbiamo documentalmente dimostrato, legata a precise finalità alchemiche, per la produzione della pietra filosofale, quell'oro filosofale che garantiva l'immortalità agli alchimisti.
Parliamo del più grande sogno coltivato dall'umanità fin dai tempi di Gilgamesh o di Alessandro Magno: quello della "immortalità".
In un unico piccolo paesino della Sicilia abbiamo trovato una serie di "assets" di assoluto primario livello, un gigantesco Specchio delle Stelle in pietra, più uniche che rare chiese beghine/catare, rarissimi simboli alchemici (degni di sconvolgere persino un Fulcanelli) e prove di pratiche tese alla conquista del grande sogno dell'immortalità.
Finito il nostro viaggio, consegniamo queste nostre scoperte all'Italia e agli studiosi nonché alle genti di Sicilia e di Montalbano Elicona, in particolare, perché non consentano più quell'incuria e quei vandalismi, a protezione di un unicum mondiale, patrimonio dell'umanità.
PAUL DEVINS & ALESSANDRO MUSCOFinito il nostro viaggio, consegniamo queste nostre scoperte all'Italia e agli studiosi nonché alle genti di Sicilia e di Montalbano Elicona, in particolare, perché non consentano più quell'incuria e quei vandalismi, a protezione di un unicum mondiale, patrimonio dell'umanità.
[1] dal greco "argimoschion" "altopiano delle grandi
propaggini", vedi Pantano Gaetano Maurizio, 1994 – Megaliti di Sicilia –
Edizioni Fotocolor
[2] Leggiamo la definizione di
“musco” sul Sabatini Coletti: “ogni piantina diffusa in luoghi umidi o sul lato
dei tronchi esposto a nord, con radici e fusticini ridotti e foglioline che
crescono talmente vicine da formare un tappeto di colore verde cupo; il tappeto
erboso stesso; E' un termine rintracciabile nel sec. XIV” (il Sabatini Coletti Dizionario
della Lingua Italiana su internet).
[3] Sul Lycopodum vedi in “Materia
medica chimico-farmaceutica”, Volume 1 Di Giovanni Pozzi Sonzogno 1816 la
seguente definizione: ”Lycopodium clavatum (Licopodio, Musco terrestre)” e ancora
vedi la “Dissertatio Medica Curiosa, De Musco Terrestri Clavato” di Georg
Wolfgang Wedel, Meno Nikolaus Krebsius, 1702
[4] Dizionario
tecnico-etimologico-filologico, Volume 1 Di Marco Aurelio Marchi - Pirola 1828
[5] Secondo la nomenlcatura binomia
erano “Lycopodium bryopteris Linnaeus” - The Linnaean Plant Name
Typification Project - The Trustees of the Natural History Museum, London –
http://www.nhm.ac.uk (internet)
[6] “Post haec ex parte illa jussit
iter assumi, et dum pervenissent ad locum, qui dicitur Argimustus, jam
Melatium, sicut in mare protenditur, insulae Vulcani, Lipariae et Strongylis
ardentes conspiciuntur ex altis. Jam montium Phariae monstrantur confinia;
satis visa placent, et loca commendnas delectabilia circumspectat; sedes
Helenes Tindareae, ubi Virginis hodie sacra domus excolitur, Pactas et quae
ante oculos surgunt Castra commendat; et descendens apud Furnarum, ibi residens
noctem fecit” - Bartolomeo di Neocastro, ed. G. Paladino, cap. C, pag. 38. Come poterono passare inosservate tali gigantesche statue di pietra ad un re appena arrivato dalla Spagna (1282) per la guerra del Vespro? questa è qualcosa che gli assertori dell'origine preistorica non sanno e non potranno mai spiegare.
[7] cfr. F. M. Santinelli,
Sonetti alchemici e altri scritti inediti, op. cit., pp. 77-79.
[8] Vedi il termine “Argo” su
Wikipedia
[9] “...La chimica moderna ne è
invece una deformazione, nel senso più rigoroso della parola, alla quale dette
luogo, forse a partire dal Medioevo, l'incomprensione di certe persone che,
incapaci di penetrare il senso vero dei simboli, presero tutto alla lettera, e
credendo che in tutto ciò non si trattasse che di operazioni puramente
materiali si dettero ad un più o meno disordinato sperimentare”. Anche queste
persone, prese ormai dall'ossessione della fabbrica dell'oro, fecerro qua e là,
per caso, delle scoperte e proprio esse sono gli autentici precursori della
chimica moderna. Per cui rivela il Guenon non è una evoluzione o un progresso
che dall'ermetismo e dell'alchimia iniziatica si giunge alla chimica, ma
proprio all'opposto con una degenerescenza...”, vedi “La Tradizione Ermetica”
di Julius Evola, Edizioni Mediterranee, 1996, pag 187/88.
[10] Col titolo di Turba
Philosophorum (Turba dei Filosofi) ci sono pervenute due opere distinte:
le cosiddette Turba latina e la Turba gallica. L'argomento dei
testi è l'alchimia; i testi si fanno risalire al tardo medioevo, da un
originale arabo.La prima è un’opera latina che si fa abitualmente risalire al
XIII secolo, evidente traduzione da un originale arabo. Si tratta di una serie
di discorsi, attribuiti ad un certo numero di filosofi disputanti in cui
talvolta non si fatica a riconoscere il nome di filosofi della tradizione
greca, nella quale si espongono i principi dell’alchimia facendo ricorso ampio
alla tradizione cosmologica della filosofia greca. Lo storico della scienza ed
orientalista Julius Ruska (1867-1949), che per primo identificò l’origine araba
dello scritto, lo collocò dapprima in un ampio arco temporale tra il IX e l’XI
secolo. Henry Ernest Stapleton (1878-1962) notò tuttavia che alcuni passi
della Turba erano presenti nell’opera di un alchimista arabo del X
secolo, Ibn Umail. Solo in seguito, con gli approfondimenti dell’orientalista
Martin Plessner (1900-1973), ci si rese conto che il testo
della Turba rivelava una coerenza ed unità compositiva, per cui ogni
opera che conteneva citazioni e confronti con essa era da considerarsi
posteriore. Poiché Ibn Umauil era morto nel 960, si poteva ragionevolmente
collocare la composizione della Turba intorno al 900. Plessner
ipotizza che essa possa essere la forma in cui ci è pervenuto un Libro
delle dispute e delle riunioni dei Filosofi dell’alchimista Akhnim
(Panopoli) Uthmàn Ibn Suwaid, attivo proprio intorno al ‘900.
[11] Athanasius Kircher E L'alchimia,
Di Anna Maria Partini, Edizioni Mediterranee, 2004, pag. 136,
[12] I “Figli d’Ermete” dichiaravano
che (…) solo la loro “Arte” supererà sino ad una perfezione nel Colloquio di
Eudosso e di Pirofilo sul Trionfo Ermetico (B.P.C., t. III, p. 243): “Soltanto
il Filosofo è capace di portare la Natura da una imperfezione indeterminata ad
una superperfezione…Il Saggio deve cominciare con una cosa imperfetta, che
essendo in via di perfezione, si trova nella disposizione naturale per essere
portata a superperfezione col soccorso di un’arte tutta divina, la quale può
superare il termine limitato della natura” (citati da Evola in La dottrina
della palingenesi nell'ermetismo medievale (marzo 1930). Bilychnis 31 (3):
173-190. Ora in Julius Evola, Claudio Mutti (a cura di), I saggi di
Bilychnis, 2a ed., Padova, Edizioni di Ar, 1987, pp.96-117. E più
esplicitamente, ed uniformemente, affermano che il loro “Fanciullo”, “creatura
di quest’Arte Sacra e Regale” — cioè il Rinato — è più nobile, più possente,
più grande, dei suoi cosmici genitori, il Cielo e la Terra, il maschio Sole e
la femmina Luna (simboli tradizionali e arcaici della dualità cosmica della
forza attiva radiante e della Forza demiurgica operante sotto l’impulso della
prima, akineton kinoùn e fysis in Aristotile, ous e ousìa in Plotino, purusha e
prakrti nella tradizione indù, yang e yin in quella taoista)
[13] “Un figlio di origine più nobile
del Padre e della Madre che gli danno l’essere”. Pernety, Dict, mytho-herm.,
cit., p. 136: “Questo Fanciullo, secondo essi, è più nobile e più perfetto di
suo padre e sua madre, benchè sia figlio del Sole e della Luna e la Terra sia
stata la sua prima nutrice”. D’Espagnet lo chiama “Fanciullo regale dei
Filosofi, più importante dei suoi genitori, e il cui scettro e la cui corona
saranno comunicati ai suoi fratelli” – altri rettifica in “potenza sovrana su
tutti i suoi fratelli”. “Fanciullo ermafrodito nato da vergine, fonte di una
razza di Re potentissimi” (Dict., p. 522). Nel De Pharmaco Cattolico (III, 13)
v’è l’espressione: “Magnipotens, stringente in mano il regno spirituale e
quello mondano”, ecc. (citati da Evola in La dottrina della palingenesi
nell'ermetismo medievale (marzo 1930). Bilychnis 31 (3):
173-190. Ora in Julius Evola, Claudio Mutti (a cura di), I saggi di
Bilychnis, 2a ed., Padova, Edizioni di Ar, 1987, pp.96-117.
[14] Anche per questo Federico II di
Svevia deportò i cittadini di Montalbano (insieme a quelli di Centuripe) ad
Augusta: anche i sudditi erano beni regi per l’imperatore tedesco che al di là
della successiva mitologia non si dimostrò certo un sovrano illuminato nelle
repressioni e deportazioni condotte a danno della Sicilia.
[15] Nel 1282 Pietro III d’Aragona, I
di Sicilia, padre di Federico III, dovendo recarsi da Randazzo a Messina,
raggiunse il «locum qui dicitur Argimustus», e da qui «descendens
apud furnarum, ibi residens noctem fecit». Pietro III d’Aragona, inoltre, guardando il panorama dall’alto
dell’Argimusto ammirò la «sedes helene tindaree, ubi virginis hodie sacre
domus excolitur», ovvero ammirava Tindari ove già allora insisteva il
santuario.
[16] Il bosco è, tuttora, popolato da
molte specie di uccelli, tra i quali cincie, fringillidi, merli, l’occhiocotto,
il colombaccio, numerosi rapaci stanziali tra cui il falco pellegrino (Falco peregrinus), la poiana, il gheppio e
l'allocco. Inoltre, ancora nel bosco vivono la volpe, il più grande mammifero
predatore superstite in Sicilia, il coniglio selvatico e l'endemico toporagno
siciliano (Crocidura sicula).
[17] In un opuscolo dell'Azienda Regionale Foreste Demaniali, more solito, si confonde Federico II
di Svevia con Federico III d'Aragona: si dice, infatti, che nel bosco di Malabotta vi andava a caccia Federico II di Svevia, che, invece, certamente mai passò dai luoghi.
[18] È notissimo il testo di Federico II di Svevia “De
arte venandi cum avibus”: per paradosso storico il manoscritto è conservato
alla Biblioteca Vaticana (codice Pal. Lat. 1071)
[19] Sul tema del ghibellinismo
medievale vedi Rivolta contro il Mondo moderno di Julius Evola, Mediterranee,
1969, pag. 331 e ss
[20] Ancora sul ghibellinismo di
Federico III è interessante notare che forse il più virulento attacco alla
Corona Aragonese venne proprio da un notissimo alchimista, Jean de
Roquetaillade o Giovanni da Rupescissa. Egli francescano proveniente dalla
terra di confine francese dell'Aquitania e acceso anticatalano scrisse nel 1349
un libro, il Liber Secretorum Eventum, in cui descrisse le sue esperienze
visionarie avute in prigione allorchè incarcerato, tra mille supplizi per anni,
dall'Inquisizione. Nel libro si fa il nome dell'Anticristo basandosi su un
ragionamento matematico basato anche sul numero tre. L'Anticristo sarebbe stato
l'infante Ludovico II, nipote di Federico III e figlio di Pietro II. In un
anedotto appreso da un valoroso prete che sarebbe stato presente in Sicilia al
tempo dei fatti Rupescissa apprese che il suggerimento di chiamare Ludovico il
figlio, al fine di evitare che questi morisse come gli altri figli, venne da
una strega. Rupescissa aggiunge che sommando il valore numerico delle lettere
contenute nel nome di Ludovicus risulterebbe il numero 666, il numero della
Bestia. L'Anticristo sarebbe, secondo l'achimista aquitano, provenuto dal seme
dell'Imperatore svevo Federico II e Ludovico sarebbe stato tale poichè terzo
nipote di Federico II: “...de semine Frederici imperatoris depositi et Petri
regis Aragonum orietur proximus Antichristus et quod Ludovicus puer rex
Trinacrie qui tenet insulam Sicilie ipse est futurus totius seculi generalis
monarcha sub quo lugebit Ecclesia sacrosancta Romana..” (citato in A Kingdom of Stargazers: Astrology and
Authority in the late Medieval Crown of Aragon di Michael E. Ryan 2011 pag. 47 e ancora sull'aneddoto pag 73/74).
[21] “…E axi partim dells ab llur
gracia, e lo senyor infant en Ferrando lliuram dos falcons montarins gruees qui
eren estats del senyor rey son pare, que trames per mi al senyor rey de
Sicilia. E anemen a Menorca, e tantost com fuy a Maho ja hi hach missatge del
senyor rey de Mallorques, que de part sua, si mi giraua, me fos donat gran
refrescament: e si hanch ho mana, be ho compliren sos offlcials. E axi partent
de Maho fuy en Sicilia, e pres terra a Trapena, e a Trapena yo pose ma muller,
e ab la galea anemen a Masina e trobe, quel senyor rey era a Montalba en un
lloch que ell esta volenters destiu, e aço era en iuliol; e yo ane lla e done
los dos falcons al senyor rey, quel senyor infant en Ferrando li trametia, e li
compte les noues que yo sabia dels senyors de ço de ponent. E puys pris comiat
dell, e la sua marce donam del seu em feu molta donor. E ab la sua gracia
anemen ab la galea a Trapena, e ab dos barques armades que yo hagui comprades a
Masina, e lleue ma muller e anemen a Gerba hon fo feyta gran festa a mi e a ma
muller. E tantost donaren de joyes a mi e a ma muller dos mil besants; e
aquells dels Querquens axi mateix de llur poder me trameteren llur present. E
axi ab la gracia de Deus estiguem en bona pau alegres e pagats en lo castell de
Gerba tots aquells tres anys quel senyor rey mauia dats. Mas apres comptar vos
he, en qual affany e trebayll torna la illa de Sicilia, e tots aquells qui del
senyor rey eren….”, Cap. CCLV. Crònica de Ramon Muntaner - Versione
italiana di Filippo Moïsè. Firenze 1844.
No comments:
Post a Comment